C'è un ultimo vallone selvaggio ai piedi del Monte Rosa, esiste da sempre e tra poco non esisterà più. Ora che sono lontano, su un treno che attraversa una pianura che non so guardare, posso chiudere gli occhi e ritrovarmi nel paese di Saint-Jacques, in fondo alla Val d'Ayas, dove l'Evançon è ancora torrentizio, tumultuoso, l'acqua grigia e verde di ghiacciaio. Lassù un ponte di tavole attraversa il fiume e una mulattiera sale nel bosco tra le radici dei larici. Supera un albergo d'inizio Novecento, lusso di poeti e regine, chiuso per sempre col suo secolo glorioso; una colonia dai muri in sasso grigio, dove nessun ragazzo da tempo è stato più visto giocare; una stalla in cui i pastori dell'est accudiscono le bestie d'altri. Ma le cose degli uomini non mi commuovono quanto quelle della montagna, né s'imprimono con tanta forza nella memoria: poco più su il bosco finisce e il sentiero sbuca in una conca che è un piccolo gioiello segreto. Vedo i pascoli del Pian di Tzére (il modo in cui un torrente rallenta e s'incurva in un prato, le sue anse sabbiose, la parola ruscello a cui si concede, prima che un salto di roccia lo renda di nuovo torrente, acqua bianca di schiuma che precipita giù), la pietraia di grandi lastre piatte che una volta ho risalito col mio amico montanaro, ognuno per la sua la strada fino alla cascata (qualcosa ci aveva divisi e quel giorno non parlavamo, camminavamo lontani, forse entrambi speravamo che la montagna risolvesse le cose al posto nostro), il ghiacciaio che in alto sporge dagli strapiombi, bianco lucente sulla roccia nera e marcia, con i blocchi che nel pomeriggio si staccano e si schiantano di sotto (il ritardo del rumore per la distanza: vedere prima il bagliore del ghiaccio che cade, come un lampo, e poi sentire il brontolio del tuono). Ricordi che d'inverno tornano nei miei sogni di città: le torbiere intrise d'acqua di fusione e il sentiero che s'impantana, la montagna che verso i tremila metri è tutta gobbe morbide, morene, avvallamenti. Ho sognato le distese di erioforo in agosto, i fiocchi bianchi che ondeggiano sull'acquitrino come campi di cotone selvatico, e poi il gran lago cupo, nero di nuvole e verde di silice, il verso stridulo dei gracchi nel vento. In riva al lago ho scritto una scena sul mio quaderno, quella in cui Bruno grida alla montagna che lui se ne andrà di lì: l'ho fatto anch'io per sentire come suonava, ho ricevuto l'eco del mio grido e ho visto i camosci fuggire spaventati oltre il colle delle Cime Bianche. Ora tutto questo non esisterà più perché il vallone, che prende nome proprio da quel colle, sarà sacrificato come tutto il Monte Rosa allo sci di discesa. In effetti è un miracolo che esista ancora perché appena al di là, oltre la cresta da cui ho visto i camosci scappare, c'è Cervinia con i suoi impianti e i suoi alberghi, e di qua comincia un comprensorio che unisce Ayas, Gressoney e Alagna: valli che furono un crocevia di lingue e popoli, dove oltre al piemontese e al patois valdostano si parla il tisch dei walser che nel '300 emigrarono a sud del Monte Rosa in cerca di terre coltivabili. Valli di pastori e contadini che cominciarono ad arricchirsi quando, nel Novecento, la villeggiatura in montagna divenne cosa da signori, e lo sci una moda sempre più popolare. Ora per quei villaggi a duemila metri, accanto alle case di legno e e pietra dei walser, passano le piste di due grandi aziende della neve, un'industria turistica da milioni di clienti all'anno, separate solo da questo angolo selvaggio di mondo. Grazie a quella funivia si fonderanno e forse clientela e fatturato cresceranno ancora. Ci credono i politici e gli amministratori locali, ci puntano gli imprenditori, ci sperano i miei amici montanari che hanno un bar o qualche stanza da affittare, o fanno i maestri di sci, o lavorano come operai agli impianti. Questa per me è la parte più dolorosa della storia, perché non c'è un grande nemico, non uno stato o una multinazionale contro cui battermi, ma i miei amici e vicini di casa, il loro lavoro, la loro idea di futuro. Poi ci sono gli sciatori, che qui da noi sono numeri e nient'altro: ogni giornata di ognuno di loro vale una certa somma, perciò basta contarli quando imboccano la valle e fare il calcolo, e così si sa quanti soldi portano alla montagna. Ma lo sanno gli sciatori come si fa una pista da sci? Io credo di no, perché altrimenti molti di loro non sosterrebbero di amare la montagna mentre la violentano. Una pista si fa così: si prende un versante della montagna che viene disboscato se è un bosco, spietrato se è una pietraia, prosciugato se è un acquitrino; i torrenti vengono deviati o incanalati, le rocce fatte saltare, i buchi riempiti di terra; e si va avanti a scavare, estirpare e spianare finché quel versante della montagna assomiglia soltanto a uno scivolo dritto e senza ostacoli. Poi lo scivolo va innevato, perché è ormai impossibile affrontare l'inverno senza neve artificiale: a monte della pista viene scavato un enorme bacino, riempito con l'acqua dei torrenti d'alta quota e con quella dei fiumi pompata dal fondovalle, e lungo l'intero pendio vengono posate condutture elettriche e idrauliche, per alimentare i cannoni piantati a bordo pista ogni cento metri. Intanto decine di blocchi di cemento vengono interrati; nei blocchi conficcati piloni e tra un pilone e l'altro tirati cavi d'acciaio; all'inizio e alla fine del cavo costruite stazioni di partenza e d'arrivo dotate di motori: questa è la funivia. Mancano solo i bar e i ristoranti lungo il percorso, e una strada per servire tutto quanto. I camion e le ruspe e i fuoristrada. Infine una mattina arrivano gli sciatori, gli amanti della montagna. Davvero non lo sanno? Non vedono che non c'è più un animale né un fiore, non un torrente né un lago né un bosco, e non resta nulla del paesaggio di montagna dove passano loro? Chi non mi crede o pensa che io stia esagerando faccia un giro intorno al Monte Rosa in estate: sciolta la neve artificiale le piste sembrano autostrade dai perenni cantieri, circondate da rottami, edifici obsoleti, ruderi industriali, devastazioni di cui noi stessi malediciamo i padri. Ora, lo scambio per i montanari è chiaro. I soldi dello sci e del cemento, o l'integrità dal valore incerto del paesaggio di montagna? È almeno dagli anni Venti del Novecento che sulle Alpi abbiamo scelto: da un secolo preferiamo i soldi, seguendo un modello economico che bada al presente e trascura il futuro, perché ormai sappiamo tutti – questa è la differenza tra noi e i pionieri, loro potevano essere in buona fede e noi no – che tra altri cent'anni la vera ricchezza non saranno le piste che abbiamo costruito, ma la montagna che abbiamo lasciata intatta. Ne ho la prova ogni volta che accompagno nei luoghi del mio romanzo i giornalisti stranieri, esterrefatti che nel cuore dell'Europa possa esistere un mondo selvaggio di tale bellezza, e sono certo che verrebbero in tanti ad ammirarlo, se fosse un parco. Lo dico con affetto ai miei amici montanari: fermatevi, pensate ai figli. L'integrità di quel vallone per loro varrà mille volte di più di qualsiasi pista costruirete, quella è la vera eredità che gli spetta, il patrimonio che gli state portando via: vorranno sapere che cos'era un torrente, un lago, una distesa di erioforo, che rumore faceva un blocco di ghiaccio quando cadeva dallo strapiombo per schiantarsi sulle rocce. Da quei figli non sarete ricordati come portatori di prosperità e progresso, sarete ricordati come i distruttori. Chiedetevi se è questa la memoria di voi che volete lasciare. (Questo pezzo è uscito su Robinson del 16 luglio)
Paolo Cognetti
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